Le calze venivano lavorate con quattro ferri, incominciando dall'alto e scendendo verso il piede. La soletta veniva confezionata a parte: con due ferri si incominciava dal tacco procedendo verso la punta; ai due terzi della soletta venivano aggiunte maglie per la forma rotonda della punta del piede, lavorando con quattro ferri. Soletta e calza venivano poi unite attraverso una cucitura effettuata a mano.

La lana utilizzata per confezionare le calze, era in genere quella degli animali meno interessanti per essere venuti, veniva filata e tinta in casa.

Fino agli anni ‘30/40 le calze arrivavano sotto il ginocchio ed erano sostenute da legacci (liachombe) e in seguito da elastici colorati con funzione di giarrettiera.
Le calze venivano indossate dalle donne tutti i giorni, anche nella stazione estiva ed erano per lo più tinte di nero. Andare in giro ëngaurolà - con gli zoccoli e senza calze, era considerato sconveniente e criticabile. Era accettabile non indossarle solo in occasione della trebbiatura, per evitare che le ariste si infilassero nella trama delle calze. In generale, quando le donne dovevano lavorare nei campi indossavano sopra le calze dei calzettoni corti alla caviglia (chaouçoun) simili a quelli maschili.

Le calze esposte al Museo di Ostana rappresentano vari esemplari: lunghe fino sopra al ginocchio, con la punta e la soletta in lana bianca, mentre il resto della calza è di lana nera; lunghe in lana di pecora filata e tinta di nero in casa, oppure in lana marrone, lavorate a maglia diritta, coste doppie, costa semplice o fantasia sulla gamba, collo del piede e soletta, con il calcagno realizzato in garét doubbi sbalhò.

Le calze sono rispettivamente un prestito di Olga Bernardi e donazioni degli eredi di Domenico Bertorello.